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Liceo Ginnasio Statale V.Monti - Cesena - (FC)
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Ode X del Libro II di Orazio

Lavoro a cura di Pietro Pollini della classe 2A

                                                                                                                    

Traduzione, analisi e commento dell’ode 10 del libro II di Orazio

Aurea Mediocritas

 

TESTO:

TRADUZIONE:

Rectius vives, Licini, neque altum    

semper urgendo neque, dum procellas

cautus horrescis, nimium premendo litus iniquum.

Auream quisquis mediocritatem

diligit, tutus caret obsoleti

sordibus tecti, caret invidenda sobrius aula.

Saepius ventis agitatur ingens

pinus et celsae graviore casu

decidunt turres feriuntque summos fulgura montis.

Sperat infestis, metuit secundis

alteram sortem bene praeparatum

pectus. Informis hiemes reducit Iuppiter, idem

Summovet. Non, si male nunc, et olim

sic erit: quondam cithara tacentem

suscitat Musam neque semper arcum tendit Apollo.

Rebus angustis animosus atque

fortis appare: sapienter idem

contrahes vento nimium secundo turgida vela.

O Licinio, vivrai più giustamente,

non spingendoti sempre in alto mare né,

mentre cauto temi le tempeste,

rasentando troppo la spiaggia insidiosa.

Chiunque ama l’aurea via di mezzo,

sicuro sta lontano dallo squallore d’una casa troppo vecchia,

sobrio sta lontano da una reggia oggetto d’invidia.

Un alto pino è più spesso scosso dai venti

e le alte torri cadono con crollo più rovinoso

e i fulmini colpiscono le cime dei monti.

Un cuore ben preparato spera una sorte diversa

nelle situazioni ostili e la teme nei momenti lieti.

Giove porta gli aspri inverni ed eglili ricaccia.

Se ora va male, non sarà così anche in futuro:

a volte Apollo con la cetra risveglia la Musa che tace né sempre tende l’arco.

Nei momenti difficili appari coraggioso e forte;

con eguale saggezza abbassa le vele gonfie quando il vento

è troppo favorevole.

METRO: Strofe saffica.

 

ANALISI e COMMENTO:
 

L’ode fa parte del secondo libro della raccolta dei “ Carmina” oraziani, pubblicato nel 23 a.C. .Essa ha carattere sapienziale, intende cioè, tramite l’utilizzo di immagini e figure letterarie, esprimere concetti morali particolarmente cari al poeta.

Tali concetti hanno una derivazione filosofica tipicamente greca, con influssi particolarmente significativi di stoicismo ed epicureismo, ma sono arricchiti dalla particolare visione dell’autore, il quale, fin dalle opere della gioventù, una su tutte la raccolta degli “ Epodi”, non aveva mai smesso di fornire ai suoi lettori una sua propria concezione dell’esistenza umana e dei suoi valori, anche e direi soprattutto esemplificandone le deviazioni e i difetti.

Tornando all’ode, il concetto più importante che vi è esposto, l’anima stessa della composizione, è definibile tramite una  espressione contenuta nel verso 5 della poesia stessa: “aurea mediocritas”, ossia “ dorata via di mezzo”.

La spiegazione di tale definizione non può prescindere dal concetto, tipicamente greco, della “metropάqeia”, ossia del “ giusto mezzo”, della “medietà”, tema che lo stesso Orazio poteva cogliere nella sua completa esplicazione nell’opera di Aristotele, pur trattandosi di un concetto ben più antico, e di assai larga fortuna.

Il procedimento con cui il poeta ci conduce alla completa definizione  della “ mediocritas” è quanto meno mirabile e rappresenta il cardine della composizione: una serie articolata di metafore, ricavate da ambienti e situazioni differenti,  ma volte tutte quante a dimostrare la validità “universale” che il giusto mezzo assume. Prima tra tutte l’immagine della nave, metafora della vita umana, e del marinaio, metafora dell’uomo: quest’ultimo deve vivere ”rectius” ( rettamente; da notare a proposito l’uso del comparativo, cioè del grado medio ), a indicare che nella vita, così come in mare, bisogna evitare di spingersi troppo a largo (altum….urgendo), cioè affrontare pericoli eccessivamente rischiosi, ma anche di costeggiare la riva ( premendo…iniquum),insidiosa in quanto contenente pericoli meno evidenti della fragorosa tempesta, ma non per questo meno terribili. L’uso della metafora si fa ancor più stringente nella strofa successiva, vero cuore di tutta la poesia: essa, infatti, contiene l’incitamento più forte e più sentito al raggiungimento di quella medietà, la “mediocritas” di cui sopra, tanto agognata. Interessante è notare l’accostamento dei due termini, assai originale: da una parte l’aggettivo “auream”, che ci richiama alla mente la lucentezza e lo splendore dell’oro, dall’altra,  invece,  il sostantivo “mediocritas” che , pur privo del significato corrente, dà l’idea di un elemento che “ sta in mezzo “, dunque, tra l’eccellenza e la bassezza. 

Il risultato che ne deriva è che la medietà viene innalzata a un livello superiore, resa punto d’arrivo di qualsiasi esperienza umana volta alla serenità, superando così l’apparente antiteticità dei due termini in una voluta e mirabile esaltazione della “ mediocritas “ stessa.

Così come l’alto pino ( ingens pinus ) è più soggetto alla furia dei venti o le alte torri e le cime montuose sono più esposte ai rischi dei crolli e dei fulmini, così anche l’uomo deve guardarsi dall’ergersi troppo in alto; il vero saggio è colui che teme non solo gli “ obsoleti tecti “, le case in rovina, ma anche il suo opposto, la “ aula invidenda “.

La seconda parte dell’ode, invece, che comincia al verso 13, passa all’osservazione degli effetti che l’ “ aurea mediocritas “ può avere sull’uomo, se da lui è applicata alla sua quotidiana esperienza.

Il poeta, dopo aver sancito la validità della sua affermazione, ora la considera in relazione alla “ sortem “ dell’uomo, al suo destino.

E per fare ciò ricorre a immagini prese dalla lirica greca arcaica, in particolare da Archiloco.

Per la verità, nei “ Carmina “, il modello prediletto da Orazio era Alceo, ma in quest’ode, il poeta latino sente la sua affinità strettissima col poeta di Paro, affinità già sperimentata negli “ Epodi “, che lo porta a ispirarsi ad alcune delle sue composizioni; ad esempio, osserviamo il seguente brano tratto dal fr.13 west o “ elegia a Pericle “:

[...]allά qeoί gάr anhkέstoisi kakoίsin

v filʹepί kraterήn tlhmosύnhn έqesan

rmakon. άllote άllos έcei tόde; nύn mέn es hmέas

etrάphqʹ, aimatόen dʹ έlkos anastέnomen,

exaύtis dʹetέrous epamέiyetai[…]                                                  

Anche Orazio, come Archiloco, invita il suo destinatario, probabilmente in un periodo di difficoltà, a non disperarsi,  poiché la sofferenza va e viene ( straordinari i versi “non, si male nunc, et olim sic erit.” ) e solo seguendo la via della “ mediocritas “ l’uomo può parare i colpi dell’ avversa fortuna. Ancora più esaustivi sono i versi dell’ultima strofa, dove la conclusione dell’ode è simbolicamente riaffidata, come nella prima, ad una immagine marinaresca, determinando così una struttura circolare. Qui il ricordo di Archiloco si fa ancora più forte, in particolare quello della famosa “ allocuzione al cuore “ ( fr. 128 West):

[…]kάi mήte nikέwn amfάdhn ayάlleo,

mhdέ nikhqeίs en oίkw katapesvn odύreo,

allά cartoίsin te caίre kai kakoίsin ascάla

mή lίhn; gίnwske dʹoίos rusmόs anqrvpous έcei.

Come per il poeta greco, anche per Orazio l’uomo non deve mai cessare di comportarsi secondo un’ “aequus animus “, ovvero con un cuore equilibrato, che sa comportarsi saggiamente ( sapienter ) sia nelle avversità che nella buona sorte: solo in questo modo l’ “aurea mediocritas” può giungere al suo compimento e consentire all’uomo di distaccarsi, con egualmente sentita decisione, sia dalla rovinosa sfortuna, sia dalla più seducente, ma non per questo meno temibile, troppa fortuna.

Orazio, inoltre, può rivolgere lo sguardo anche a un altro grande della letteratura greca che, come lui, aveva ammonito a non lasciarsi sedurre dalla buona sorte e a comportarsi sempre col medesimo equilibrio: Erodoto.

Per quest’ultimo, infatti, …

oudέn έih tvn en anqrvpoisi asfalέws έcon...
 

che possa consentire all’uomo di credersi sicuro nella sua felicità e in grado di rinunciare alla sua ricerca della “mediocritas”,  unica garanzia per l‘ umanità di sicurezza e serenità.

Per concludere,  ritengo che quest’ode sia una delle più belle di tutta la raccolta, sicuramente una delle più significative, in quanto portatrice d’ un messaggio quanto mai moderno, in una società che tende sempre più a mostrarci solo gli aspetti favorevoli della vita, quelli più belli e più coinvolgenti, dipingendoli come sufficienti di per sé a garantire all’uomo la felicità e nel contempo nascondendo, evitando gli aspetti più spiacevoli, quelli negativi, come se non facessero parte della nostra esperienza. Dunque leggere queste pagine può consentirci di riflettere su quanto illusoria e controproducente sia questa pratica e quanto, al contrario, possa ancora oggi avere un senso parlare di “giusto mezzo”. Personalmente, ho sempre guardato all’idea di medietà come a un comportamento saggio, pur se difficile da mantenere, non solo intendendolo come saper affrontare equamente la buona e la cattiva sorte, ma anche come pensare alla propria esistenza fatta di vicende alterne, le cui dinamiche spesso sono e restano misteriose e come tali è necessario porsi nell’atteggiamento di umiltà di fronte ai misteri dell’esistenza, senza rinunciare alla sana sete di conoscenza dell’uomo e tuttavia senza slanci di delirante onnipotenza, purtroppo sempre più dilagante.

Vorrei terminare con una frase di Seneca, altra straordinaria voce che tanto può ancora dirci, che riprende, decenni dopo Orazio, il tema della fortuna e della “medietà”, regalandoci una sentenza memorabile e valida per l’uomo di ogni nazionalità e in ogni età:

“ Fortuna gravis est quibus repentina est, ille sustinet qui semper exspectavit”.

Pietro Paolo Pollini
Classe II A

 

 

 

 

 

 

 


Categoria: MultimediaData di pubblicazione: 25/05/2011
Sottocategoria: Latino e GrecoData ultima modifica: 08/12/2011 16:13:42
Permalink: Ode X del Libro II di OrazioTag: Ode X del Libro II di Orazio
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